Il Muro, la Ddr e quei record eterni

08 Novembre 2019

Rivista trent’anni dopo, la Germania dell’Est ha l’aspetto di una creatura “in vitro”, un mondo di ricerca propagandistica. L’atletica ne conserva le tracce con i primati del mondo di Koch, Schult e Reinsch

di Giorgio Cimbrico

Il Muro e i suoi scalpellatori, il Muro di Berlino, the Wall, abbattuto 30 anni fa, il 9 novembre 1989: Mstislav Rostropovich accorse con il suo violoncello prezioso, creato a Cremona da Antonio Amati, per offrire in quell’aria densa di storia, di cambiamento, di metamorfosi, il linguaggio delle “partite” di Bach.

Di quella Germania che non c’è più, l’atletica conserva ancora tracce: tre record del mondo (Marita Koch nei 400 e le bordate dei discoboli Jurgen Schult e Gabriele Reinsch tengono da 34, 33 e 31 anni) e un’interminabile serie di volti, di canottiere blu con il martello e il compasso, di un “Risorgeremo dalle rovine” non marziale, quasi malinconico, ascoltato e riascoltato nei loro anni di tuono, di confessioni sull’uso del turinabol, di campioni premiati da Honecker con quella sua aria da diligente burocrate, di esistenze spiate (tutto narrato dolorosamente in “Le vite degli altri”), di collaborazioni richieste con la violenza in un sistema basato sulla delazione capillare, di imprese che hanno lasciato il segno: Rosemarie Ackermann che scavalca 2,00, Uwe Hohn che spara il giavellotto molto al di là dei 100 metri, Heike Daute poi Drechsler che inizia vincendo il Festival della Gioventù Comunista all’Avana e passa attraverso almeno tre generazioni, sotto due bandiere: la seconda è quella della Germania riunificata. Il Muro, e quello che stava al di là del Muro, è Wolfgang Schmidt, un Robert Redford XXL, che conosce gli interrogatori della Stasi e la galera, è una ricerca tecnica che porta a risultati prodigiosi, e non è solo il doping a materializzarli.

Sono uno dei pochi italiani – un gruppetto di giornalisti e di atleti selezionati nella squadra europea, in tutto una dozzina di viventi – ad aver assistito alla corsa di Marita Koch al Bruce Stadium assediato da diecimila eucalipti. 6 ottobre 1985, le 14:11 ora di Canberra, Coppa del Mondo: se la Ddr non c’è più, anche quella pista è stata sacrificata al rugby. Colpo di pistola per i 400: Marita Koch va via rapida, con quella corsa che era un prodigio di studio, di tecnica. Wolfgang Maier, allenatore e più tardi marito, sostiene di averle preso 10.9 ai 100. Sembra iperbolico ma può darsi: Marita era capace di accensioni così rapide da permetterle di bruciare tempi-monstre anche sui 50, sui 60. Olga Vladykina prova a starle dietro ma ai 200, passati in 22.4, l’ambizione è frustrata. Meglio sfruttare la scia tracciata e lasciata dalla ragazza di Wismar, marca del Meclemburgo-Pomerania, costa del Baltico. Quando Marita transita ai 300, il tabelloncino in curva sta lasciando i 33” per transitare sui 34”. In quel momento la signorina Koch perde un po’ le gambe, remiga, accusa, chiude come può, come può lei: 47.60. Il record mondiale di Jarmila Kratochvilova, 47.99 per conquistare il primo titolo mondiale in palio due anni prima a Helsinki, è spazzato nel tentativo – riuscito – di riappropriazione della corona, nell’imposizione del settimo sigillo sulla distanza che non perdona: Marita aveva trovato posto per la prima volta nell’albo nel ’78, con il 49.19 che in cinque successive tappe aveva portato a 48.16: erano gli Europei di Atene, quando aveva affibbiato sette decimi alla possente boema.

Immagini molto vecchie e sempre molto fresche: lei offre un sorriso gentile, sventola un braccio, dice di esser molto felice di quel che ha fatto e non ha nessun rammarico per quel che ha lasciato sull’ultimo rettilineo. È molto felice anche Olga Vladykina (ora ucraina, poi Olha Bryzhina dopo matrimonio con lo sprinter Viktor), seconda in 48.27, terza di sempre in quel momento, quinta oggi dopo l’acuto di Salwa Eid Naser, passata dall’hijab a un costumino ridottissimo, al piercing, ai tatuaggi.

E posso ricordare anche la prima volta che andai in Ddr: era il 1980 e per qualche giorno non riuscii a capire niente. La chiave furono due parole: società e club. Le società erano una miriade, una galassia che inglobava l’attività di base degli studenti, dei lavoratori, dei militari, dei dopolavori. Per caso, mentre ero in visita alla piscina di Lipsia, domandai quanti fossero i club di nuoto. “Sei” risposero le mie guide. E così aprii la serratura. I club erano i centri di alta specializzazione: Motor Jena, Dynamo Berlino, Empor Rostock. Per gli atleti, l’approdo esclusivo, riservato a pochi, impegnativo, elitario. La fabbrica delle medaglie, dei successi, dei record. Si poteva nascere in Turingia o sul Baltico, ma se si sbocciava in piscina, la meta era Lipsia. Così come per l’atletica erano Jena e Berlino. Previsti sradicamenti, anche legati al nucleo familiare, se esistevano interessanti premesse, o se, come per Roland Matthes, detto Re Sughero, venivano constatate doti naturali di acquaticità. Il matrimonio con la bella Konny Ender costituì un trionfo di quel sistema sportivo incernierato sull’accurata, ossessiva selezione, per proporre al mondo il modello del piccolo paese in grado di battere gli Stati Uniti, di rivaleggiare con la “protettrice” Urss.

Rivista trent’anni dopo, la Ddr ha l’aspetto di una creatura “in vitro”, un mondo di ricerca propagandistica, di scienza e, di magia nera, di eccessi. Ma non solo nella Germania sparita nell’autunno del 1989 hanno agito il professor Frankenstein o il dottor Stranamore.

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